Biografia
a cura di Fabrizio della Seta
Vincenzo Bellini
Catania, 3 nov. 1801 – Puteaux, Parigi, 23 sett. 1835
Vincenzo Bellini nacque in una famiglia di musicisti. Il nonno, Vincenzo Tobia (n. 1744), originario di Torricella, piccolo paese in provincia di Chieti, aveva studiato nel conservatorio napoletano di S. Onofrio, e verso il 1767-68 si era stabilito a Catania; qui si era acquistato una buona rinomanza come organista, compositore e insegnante, e intratteneva rapporti con l’aristocrazia cittadina, in particolare con il principe di Biscari, studioso, amante delle arti e committente di musica; della sua produzione musicale si ha notizia di un certo numero di messe e di oratori. Suo figlio Rosario (n. 1776) seguì le orme del padre, di cui fu probabilmente allievo, ma non ne eguagliò mai la fama locale. Il 17 gennaio 1801 Rosario Bellini sposò Agata Ferlito (n. 1778), e alla fine dello stesso anno nacque Vincenzo, il primo di sette figli. Sebbene la madre provenisse da una famiglia di funzionari pubblici abbastanza agiata, le condizioni della famiglia Bellini rimasero sempre modeste (anche se non di miseria), e una delle preoccupazioni costanti del compositore negli anni del successo fu quella di costruire una sicurezza economica non solo per sé, ma anche per i suoi genitori e fratelli.
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Le informazioni sui primi anni di vita di Bellini provengono quasi esclusivamente da una biografia anonima manoscritta, probabilmente redatta da qualche familiare o conoscente della famiglia, molti anni dopo la morte del compositore (oggi al Museo Belliniano di Catania). Fra i molti tratti leggendari, sono verosimili le notizie circa la precoce manifestazione dell’interesse di Bellini per la musica, sul fatto che a partire dai cinque anni egli ricevette lezioni di pianoforte dal padre, e che poco dopo il nonno cominciò a insegnargli i primi elementi della composizione; tutto ciò sembra abbastanza normale in una famiglia di artigiani musicali, che si trasmettevano la professione di padre in figlio, mentre è senza fondamento la notizia secondo cui Bellini avrebbe, fin dai sette anni di età, ricevuto un’accurata istruzione nelle lingue classiche e moderne, in letteratura e in filosofia: lo stile, il linguaggio e i contenuti delle sue lettere dell’età adulta permettono di escluderlo. È invece probabile che, secondo l’usanza dell’epoca, egli abbia appreso da qualche ecclesiastico locale i primi rudimenti di grammatica italiana e latina e qualche elemento di retorica, nozioni indispensabili per la composizione di musica vocale sacra e profana. In effetti il primo lavoro di Bellini di cui si abbia notizia è un “Gallus cantavit”, di cui ci è pervenuto il manoscritto, che sarebbe stato composto verso i sei anni e che fu seguito da un certo numero di composizioni sacre con accompagnamento di organo o d’orchestra. Il 1810 è l’anno a partire dal quale questa produzione è attestata con certezza; nello stesso periodo Bellini iniziò a comporre musica vocale da camera, soprattutto ariette e romanze per voce e pianoforte, ma anche arie con accompagnamento d’orchestra, con le quali cominciò a farsi conoscere nella buona società di Catania, in cui venne introdotto quasi certamente dal nonno Vincenzo Tobia.
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Nel 1819, grazie alla reputazione del nonno, all’intervento di nobili locali, e facendo leva sulle condizioni disagiate della famiglia, Bellini ottenne dal Decurionato (Comune) di Catania una borsa di studio per poter completare la sua preparazione musicale presso il Conservatorio di Napoli, dove si trasferì nel giugno dello stesso anno; avendo già superato l’età massima per l’ammissione, in settembre ottenne un posto gratuito, e subito dopo fu promosso alla carica di “maestrino”, cioè di assistente di uno dei maestri e tutor degli allievi più giovani, e nel 1824 divenne “primo maestrino”. A Napoli Bellini ebbe come maestri anziani esponenti della tradizione napoletana: dapprima Giovanni Furno, dal 1821 Giacomo Tritto, e dal 1822 il direttore Nicola Zingarelli; con essi Bellini approfondì la conoscenza dell’armonia, del contrappunto e della tecnica vocale, ma soprattutto apprese lo stile dell’opera napoletana del tardo Settecento, in particolare di Cimarosa e di Paisiello, la cui Nina, o sia La pazza per amore (1789) egli considerò sempre un modello ideale. Si ha anche la prova che Bellini abbia studiato le partiture di alcune opere strumentali di Haydn e di Mozart, ancor oggi conservate nella biblioteca del Conservatorio. Un’altra esperienza decisiva fu l’ascolto delle opere di Rossini, in quel momento il dominatore dei teatri napoletani (osteggiato dagli anziani maestri del Conservatorio, che scoraggiavano gli allievi dall’imitarlo, come corruttore della buona tradizione italiana), e probabilmente anche de La vestale di Spontini, nonché delle più recenti creazioni di Mayr, Mercadante, Pacini e Donizetti.
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In questo periodo, su cui resta scarsa documentazione diretta, Bellini si legò di stretta amicizia al collega di studi Francesco Florimo, che divenne poi il suo principale corrispondente epistolare e, dopo la morte, il custode della sua memoria e il principale responsabile della creazione dell’immagine romantica del compositore; nel 1820, all’epoca della fallita rivoluzione costituzionale, i due giovani aderirono per breve tempo a una loggia della Carboneria, ma, presto scoperti, non ne subirono alcuna conseguenza. Un altro episodio, la cui importanza fu in seguito esagerata con tinte sentimentali e romanzesche, fu l’amore per la giovane figlia di un magistrato, Maddalena Fumaroli, alla quale Bellini dava lezioni di pianoforte e che avrebbe forse voluto sposare; ma il progetto fallì per l’opposizione del padre della ragazza. Questo episodio va visto soprattutto come un sintomo dei tentativi di Bellini di inserirsi nella società altolocata, come aveva già fatto a Catania e come farà in seguito a Milano e a Parigi. Nello stesso periodo, accanto alla produzione di musica sacra e strumentale, prevalentemente in ambito scolastico, si intensificò quella di musica vocale da camera, che cominciò a far conoscere il nome di Bellini a Napoli, tanto che nel 1824 apparve la sua prima composizione a stampa, l’arietta “Dolente immagine di Fille mia”, e gli fu commissionata una cantata per nozze.
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Al termine degli studi, nel 1825, Bellini presentò nel teatrino del Conservatorio, eseguito da allievi di questo, il suo primo lavoro teatrale, Adelson e Salvini, opera semiseria che prevedeva, secondo l’uso napoletano, i dialoghi parlati e una parte buffa in dialetto. Il buon risultato indusse l’impresario Domenico Barbaja a commissionare a Bellini un’opera seria, Bianca e Fernando, da rappresentarsi al Teatro San Carlo. Essa andò in scena il 30 maggio 1826, col titolo mutato, per convenienza politica, in Bianca e Gernando, e con una compagnia formata da cantanti che avrebbero avuto un ruolo molto importante nella futura carriera di Bellini: il soprano Henriette Méric Lalande, il tenore Giovanni Battista Rubini (che sostituì all’ultimo momento il famoso tenore rossiniano Giovanni David, per cui era stata scritta la parte di Fernando), il basso Luigi Lablache. Il rinnovato successo fece sperare in una ripresa, con una compagnia di professionisti, di Adelson e Salvini, che Bellini rielaborò in parte tra il 1826 e il 1828, riducendone gli atti da tre a due, trasformando i dialoghi in recitativi e adattando alla parte buffa un testo in lingua italiana. Il progetto non fu realizzato, ma Barbaja, che era in società con gli impresari del Teatro alla Scala di Milano, decise di tentare il lancio di Bellini in quella città proponendone la scrittura nella stagione d’autunno del 1827, dove la compagnia del San Carlo doveva presentare le opere più recenti di Giovanni Pacini.
La terza opera di Bellini, Il pirata, andò in scena alla Scala il 27 ottobre 1827 con un successo clamoroso, dovuto anche all’eccellenza della compagnia di canto che comprendeva, oltre a Méric Lalande e a Rubini, il basso Antonio Tamburini. Essa fu un momento decisivo della carriera professionale di Bellini da molti punti di vista: per la prima volta il musicista collaborò col già famoso poeta Felice Romani, che doveva scrivere il libretto di tutte le sue opere successive, tranne l’ultima; Bellini fu accolto nella società aristocratica milanese, dove entrò in diretta competizione con compositori già affermati quali Pacini e Donizetti; strinse rapporti con personaggi importanti del mondo teatrale, come il soprano Giuditta Pasta e l’editore Giovanni Ricordi, che da allora pubblicò tutte le sue opere. Il nome di Bellini fu ben presto conosciuto in tutta Italia, e anche all’estero: già nel 1828, infatti, Il pirata fu rappresentato a Vienna.
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Dal 1827 a 1833 Bellini risedette prevalentemente a Milano, dove compose sei opere nuove, più un rifacimento e un progetto non compiuto, al ritmo piuttosto regolare di circa un’opera all’anno. Nel 1828 l’unico lavoro compiuto fu una nuova versione di Bianca e Fernando, il cui libretto era stato modificato da Felice Romani. L’opera fu rappresentata a Genova il 7 febbraio, interpretata dal soprano Adelaide Tosi, da David e da Tamburini. Durante il soggiorno a Genova Bellini allacciò una relazione amorosa con la gentildonna milanese Giuditta Cantù, moglie del possidente e fabbricante di seta Ferdinando Turina; tale relazione, agitata da sospetti e gelosie, durò fino a quando il musicista non abbandonò l’Italia. Degli sviluppi di questo affare Bellini tenne costantemente informato con numerose lettere l’amico Florimo (che però distrusse quelle più compromettenti); da esse risulta chiaramente che Bellini, pur amando la donna, considerava la relazione soprattutto un modo per consolidare i suoi rapporti con la società milanese, e in effetti egli fu più volte ospitato nella villa dei Turina senza che il marito mostrasse di accorgersi di nulla. In realtà la relazione era ben nota a Milano, ma, secondo il costume dell’epoca, si cercava finché possibile di evitare uno scandalo pubblico.
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Il 14 febbraio del 1829 Bellini presentò alla Scala la sua quarta opera, La straniera; il successo superò addirittura quello del Pirata, e l’opera suscitò un ampio dibattito critico sullo stile del compositore, che cominciava ad essere percepito come innovatore rispetto a quello dominante di Rossini. Intanto Bellini aveva accettato l’incarico di comporre una nuova opera per l’inaugurazione del nuovo Teatro Regio di Parma, nella primavera dello stesso anno, una commissione che si presentò subito piena di problemi. Infatti Bellini rifiutò di comporre il libretto che gli era stato proposto, un Cesare in Egitto che egli giudicò «vecchio come Noè» e non rispondente al gusto moderno orientato verso il Romanticismo; in questo modo predispose in maniera sfavorevole la parte più tradizionalista del pubblico di Parma, dato che il librettista era l’influente censore dei teatri di Parma, l’avvocato Luigi Torrigiani. Solo dopo la rappresentazione della Straniera Bellini si accordò con Felice Romani per un libretto tratto dalla Zaïre di Voltaire, che il poeta scrisse tra marzo e aprile del 1829, e che Bellini compose man mano che i versi erano pronti. La Zaira, andata in scena a Parma il 16 maggio, fu accolta freddamente dal pubblico e replicata per poche sere, indi scomparve dai cartelloni teatrali: fu questo l’unico vero insuccesso di tutta la carriera di Bellini. Egli non era però insoddisfatto della musica, che riutilizzò ampiamente nell’opera successiva.
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Si hanno poche notizie sulla vita di Bellini nell’estate del 1829, la più importante delle quali è la concessione di un’onorificenza da parte del nuovo re delle Due Sicilie, Ferdinando II. All’inizio del 1830 egli si recò a Venezia per presentarvi Il pirata, in attesa di una commissione per la successiva stagione di Carnevale. Essendo venuta a mancare la prevista opera nuova di Giovanni Pacini, il Teatro la Fenice ne commissionò una a Bellini. A causa della fretta fu scelto un libretto che Romani aveva scritto nel 1825 per Nicola Vaccai, I Capuleti e i Montecchi, e che rimaneggiò per l’occasione. Benché scritta in poco più di un mese, alla prima rappresentazione (11 marzo 1830) l’opera fu accolta assai favorevolmente, e restò a lungo fra le più popolari del repertorio.
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Nel maggio del 1830 Bellini fu colpito da una grave malattia intestinale, un’infezione amebica che cinque anni dopo ne avrebbe causato la morte. Convalescente, egli trascorse parte dell’estate nella villa dei Turina sul lago di Como, lavorando a una nuova opera su libretto di Romani, tratta dal recentissimo Hernani di Victor Hugo. Questo progetto fu abbandonato in autunno, per timore delle difficoltà che il soggetto avrebbe incontrato con la censura. Il suo posto fu preso da quello de La sonnambula, tratto da un balletto di Eugène Scribe con musica di Ferdinando Hérold, una scelta che fu senza dubbio influenzata dal più stretto rapporto di amicizia che in quel periodo Bellini aveva instaurato con il soprano Giuditta Pasta, per le cui qualità vocali e drammatiche fu pensata la parte della protagonista. L’opera era programmata per il febbraio 1831 al Teatro Carcano di Milano, ma la lentezza con cui sia Romani sia Bellini lavorarono rese necessario spostare al 6 marzo la prima esecuzione, mentre la curiosità del pubblico era ulteriormente eccitata dal confronto diretto con l’Anna Bolena di Donizetti, rappresentata all’inizio della stagione nello stesso teatro e con gli stessi interpreti principali, Pasta e Rubini.
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La sonnambula rinnovò il trionfo del Pirata e della Straniera e preparò la strada per la successiva opera, commissionata per l’apertura della stagione di Carnevale 1831-32 della Scala, in cui Giuditta Pasta sarebbe stata la prima donna, mentre il tenore sarebbe stato Domenico Donzelli, che Bellini non conosceva ancora. Ancora una volta il soggetto fu scelto in funzione delle qualità interpretative della Pasta, e di nuovo si trattò di un dramma francese recentissimo, Norma, ou l’Infanticide di Alexandre Soumet, rappresentato a Parigi nel marzo dello stesso 1831. La stesura del libretto fu effettuata con calma durante l’estate, in stretta collaborazione tra il poeta e il musicista, che impose molte modificazioni. La musica fu composta durante l’autunno, e le prove furono più accurate del solito. Ma proprio per questo i cantanti arrivarono esausti alla prima rappresentazione del 26 dicembre 1831, che fu accolta abbastanza freddamente dal pubblico della Scala, anche se non fu un ‘fiasco’, come si legge in una lettera di Bellini a Florimo quasi certamente falsa. Infatti l’esito migliorò rapidamente nelle serate successive alla prima, e Norma fu ben presto riconosciuta fra i capolavori dell’autore e dell’epoca.
All’inizio del 1832, subito dopo le prime rappresentazioni di Norma, Bellini intraprese un lungo viaggio nel Sud dell’Italia, che lo portò prima a Napoli, poi in Sicilia; in tutte le città che visitò ricevette festeggiamenti e onorificenze, e assistette a esecuzioni di propria musica. In agosto egli era a Bergamo per una nuova messa in scena di Norma, e probabilmente in questa occasione apportò qualche ritocco alla partitura. Intanto aveva firmato un contratto con l’impresario Alessandro Lanari per una nuova opera da rappresentarsi alla Fenice di Venezia nel Carnevale 1832-33, sempre con la Pasta come prima donna. Come soggetto fu scelto con molto ritardo Cristina di Svezia, il cui libretto Romani cominciò a scrivere all’inizio di ottobre; ma a novembre Bellini decise di cambiarlo su suggerimento della Pasta, a cui era molto piaciuto il soggetto di un ballo intitolato Beatrice di Tenda. Il cambiamento improvviso provocò il malumore di Romani, che ritardò la scrittura del nuovo libretto e di conseguenza la composizione dell’opera, la cui rappresentazione dovette essere rimandata. Ne seguì una violenta polemica fra poeta e compositore, che fu resa nota sui giornali e contribuì a rendere mal disposto il pubblico veneziano della prima rappresentazione, il 16 marzo 1833. Bellini era però convinto del valore dell’opera, che giudicò «non indegna delle sue sorelle», e replicò pubblicamente a chi lo accusava di aver riproposto idee di opere precedenti.
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In quest’epoca Bellini ritenne giunto il momento di tentare l’affermazione sul piano internazionale. Nel febbraio 1833 firmò un contratto per mettere in scena tre sue opere al King’s Theatre di Londra, dove giunse alla fine di aprile; Il pirata, Norma e I Capuleti, interpretate dalla Pasta, Méric Lalande e Donzelli, suscitarono scarso interesse, mentre la Sonnambula, cantata in inglese da Maria Malibran, ottenne un successo vivissimo al Drury Lane Theatre. Alla fine di agosto Bellini si trasferì a Parigi, dove entrò subito in stretto rapporto con Rossini, che aveva già conosciuto a Milano e che ora dirigeva il Théâtre-Italien; per alcuni mesi, però riuscì solo a far rappresentare opere vecchie, ancora Il pirata e I Capuleti. Ugualmente inutile fu il tentativo di ottenere una commissione dall’Opéra o dall’Opéra-Comique, sia per le sue eccessive pretese economiche, sia per la difficoltà di scrivere un’opera in lingua francese, che conosceva assai male.
Nell’inverno 1833-34 Bellini cercò di frequentare il più possibile la società parigina, in cui fu introdotto da Giuditta Pasta e da alcuni aristocratici italiani in esilio. Poté conoscere personalità della musica e della cultura, come Hiller, Chopin, Liszt, Heine, e ascoltò per la prima volta alcune sinfonie di Beethoven ai concerti del Conservatoire. Ma nel complesso, restò abbastanza isolato, e fu notato più per il suo bell’aspetto (di lui colpiva il contrasto fra la figura alta e bionda e il languore “meridionale”) che per la sua musica e per le sue idee. Le persone a cui si legò di più furono un commerciante ebreo di Londra, certo Salomon Levy, e la sua amante, una cantante o ballerina chiamata Mademoiselle Olivier; Levy gli affittò una villetta nel sobborgo di Puteaux, a mezz’ora a Parigi, dove Bellini trascorse le estati del 1834 e del 1835.
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Nell’aprile 1834 Bellini ricevette finalmente l’incarico di comporre un’opera per il Théâtre-Italien, I Puritani. Il libretto, tratto dal dramma storico Têtes rondes et Cavaliers di J.A.F.P. Ancelot e Saintine (1833), fu affidato al conte Carlo Pepoli, un esule politico di buona cultura letteraria ma completamente privo di esperienza del teatro musicale; la stesura fu perciò particolarmente faticosa, e Bellini dovette intervenire con molta decisione per ottenere versi e situazioni conformi alle sue intenzioni. Anche la composizione della musica richiese molto tempo; Bellini si giovò dei consigli di Rossini, e curò in maniera particolare l’orchestrazione per soddisfare il gusto di Parigi. I Puritani, interpretati da Giuditta Grisi, Rubini, Tamburini e Lablache, furono rappresentati il 24 gennaio 1835 con esito trionfale. Contemporaneamente Bellini aveva preparato una seconda versione dell’opera, adattata alle voci di Maria Malibran e di Gilbert Duprez, che dovevano eseguirla al S. Carlo di Napoli, ma la partitura non arrivò in tempo, e questa rappresentazione non ebbe luogo.
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Il successo dei Puritani ravvivò l’interesse dell’ambiente parigino per Bellini e riaccese le sue speranze di un incarico dall’Opéra; ma egli sperava anche di tornare a comporre per l’Italia e, dopo la deludente esperienza con Pepoli, cercò di riallacciare l’amicizia e la collaborazione con Romani. Buona parte del 1835 passò tra la ricerca di soggetti e progetti di matrimonio: Bellini desiderava trovare una ragazza sottomessa e con una buona dote, che gli avrebbe permesso di vivere di rendita. All’inizio di settembre si risvegliò la malattia intestinale di cui Bellini soffriva da tempo. Egli fu assistito da alcuni dei conoscenti parigini, che però lo lasciarono solo all’aggravarsi delle sue condizioni, forse temendo che si trattasse di colera; morì il 23 settembre nella casa di Puteaux, dove il corpo fu trovato nel pomeriggio da un amico. La notizia fu accolta con grande commozione nell’ambiente musicale di Parigi. Rossini si occupò personalmente di raccogliere e inviare alla famiglia i beni lasciati da Bellini, e organizzò il 2 ottobre una solenne cerimonia funebre agli Invalides, alla quale parteciparono tutti i musicisti presenti a Parigi. Il corpo imbalsamato fu sepolto al cimitero del Père-Lachaise, e nel 1876 fu trasportato a Catania.
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La fama di Bellini, già diffusa mentre era vivo, fu amplissima per tutto l’Ottocento. Le sue opere furono considerate la quintessenza dello stile italiano di canto dopo Rossini, e le sue doti di creatore di melodie memorabili furono ammirate, tra gli altri, da Berlioz, Liszt, Wagner e Verdi; non mancarono peraltro le riserve su altri aspetti della sua arte, per esempio sulle capacità nel campo dell’armonia e dell’orchestrazione. Per di più, la sua figura fu oggetto di un processo di mitizzazione che, partendo dalle facili suggestioni della morte in giovane età e della provenienza da una terra “esotica” (quale era la Sicilia nell’immaginario ottocentesco), creò l’immagine oleografica di un creatore ingenuo e inconsapevole, quasi divinamente ispirato.
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Questa immagine, trasmessasi inalterata per buona parte del Novecento, è stata sostanzialmente ribaltata grazie a un processo di revisione portato avanti nel corso degli ultimi cinquanta anni su due fronti diversi, ma i cui risultati sono confluiti in una visione radicalmente nuova: da una parte l’azione di grandi interpreti stilisticamente consapevoli (soprani quali Maria Callas, Joan Sutherland, Renata Scotto, Montserrat Caballé, Mariella Devia; tenori quali Alfredo Kraus, Luciano Pavarotti, Juan Diego Flórez; direttori quali Richard Bonynge e Riccardo Muti); d’altra parte la ricerca storica, filologica e stilistica di studiosi quali Francesco Pastura, Friedrich Lippmann, Pierluigi Petrobelli, John Rosselli, Philip Gossett e molti altri.
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Come risultato di questo intenso lavoro esecutivo e musicologico, opere di grande valore quali Il pirata, La straniera, I Capuleti e i Montecchi e Beatrice di Tenda hanno ripreso il loro posto nel repertorio accanto ai capolavori indiscussi, La sonnambula, Norma e I puritani; la conoscenza delle opere giovanili, delle liriche da camera, della musica sacra e strumentale, ha rivelato motivi d’interesse insospettati; è stata ricostruita la figura di un artista pienamente cosciente dei suoi fini e dei mezzi per raggiungerli, consapevolmente teso alla definizione di uno stile musicale e drammatico personale e al perfezionamento della propria tecnica; infine, è stata messa in discussione l’idea del Bellini prevalentemente “lirico”, la cui grandezza risiederebbe esclusivamente nelle sue doti melodiche – che restano pur sempre grandissime – ed è stata ricostruita l’immagine di un completo uomo di teatro e drammaturgo, tra i più grandi dell’intera storia del teatro musicale.
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Fabrizio Della Seta